Vince il grande cinema rispetto alle tematiche sociali, per quanto siano molto presenti nel palmarès, al 71° Festival di Cannes. Parecchio a sorpresa, la Palma d’oro è andata al giapponese “Shoplifters” di Kore-Eda Hirokazu, sul favorito delle ore precedenti, “Capharnaum” della libanese Nadine Labaki, cui è andato solo il Premio della giuria. E ci sono stati due premi per il cinema italiano, che avrebbe potuto ambire anche a molto di più. Il bellissimo “Dogman” di Matteo Garrone, già nelle nostre sale, ha festeggiato e portato una Palma meritatissima di miglior attore per Marcello Fonte, emozionato ed emozionante sul palco accanto a Roberto Benigni. Fonte, visto ne “L’intrusa” e in “Io sono Tempesta” e già regista e protagonista di “Asino vola” (2015), ha interpretato in maniera totale un uomo puro e umiliato, che subisce i soprusi e si ribella senza speranza. Un film che conferma l’immenso talento di Garrone e una capacità di fare culminare le sue storie in finali spiazzanti. Il Premio per la sceneggiatura è andato ex equo a Alice Rohrwacher per “Lazzaro felice” (“una sceneggiatura bislacca” secondo la stessa autrice nel suo discorso di ringraziamento) e a “3 Faces” dell’iraniano Jafar Panahi.
La giuria presieduta da Cate Blanchett ha spalmato i premi su nove dei 21 film in lizza e ha laureato un regista habitué del festival, già in concorso con “Distance” nel 2001. Un cineasta della bellezza delle piccole cose, di umanesimo profondo nel solco di Yasujiro Ozu di cui è uno degli eredi. Uno stile intimista e raffinato, un’attenzione alle relazioni e alla famiglia, soprattutto quella non ordinaria, che conferma anche in questo film. “Shoplifters” racconta in modo piano, coinvolgente ed empatico di persone legate da un segreto o da rapporti che possono sembrare di opportunismo, ma si rivelano profondi. Con Kore-Eda il Giappone vince di nuovo, 21 anni dopo “L’anguilla” di Shoei Imamura.
Il concorso si è chiuso con un buon bilancio, non eccezionale, e il palmarès rispecchia nell’insieme abbastanza bene gli intensi 12 giorni di festival.
Meritato il Gran Prix a “BlacKkKluxman” di Spike Lee, altro cineasta che non aveva mai ottenuto grandi riconoscimenti nei festival. Un poliziesco comico con tanti riferimenti alla blaxploitation, una pellicola divertente e politicamente ficcante sul razzismo, che sarebbe sminuente considerare solo anti-Trump.
Inattesa e condivisibile la Palma d’oro speciale a Jean-Luc Godard per “Le livre d’image”, un riconoscimento introdotto per la prima volta. Una sorta di premio alla carriera per un cineasta come nessun altro, autore di saggi più che di film, di opere complesse e mai scontate, che necessitano, di revisioni e riflessioni. sollecitando un mondo sordo e cercando di riflettere sul linguaggio, istanza che gli è da sempre cara e che non smette di essere attuale.
“Capharnaum” della libanese Nadine Labaki, oltre al Premio della giuria, ha ottenuto quello della giuria ecumenica che sembrava viatico per qualcosa di più. Tra le attrici è stata premiata la kirghisa Samal Yesyamova, protagonista del russo “Ayka” di Sergei Dvortsevoy, altra storia di migranti, peregrinazioni e sofferenza, che i registi cavalcano un po’ troppo. La favoritissima era la polacca Joanna Kulig di “Cold War” di Pawel Pawlokowski, che si è consolato con la Palma per la regia. Il regista di “Ida” (e soprattutto di “My Summer Of Love”) è misurato nel raccontare una storia d’amore impossibile sull’arco di 15 anni ai tempi della Guerra fredda, ma tra la precisione e la maniera, lo scarto può essere breve.
La Caméra d’oro come miglior esordio è andato al belga “Girl” di Lukas Dhont, una delle scoperte dell’annata, presentato nella sezione Un certain regard, per la quale ha ricevuto il premio Fipresci e il premio per l’interpretazione al bravissimo Victor Polster.
Resta a mani vuote, e non accadeva da parecchio, la Francia: “En guerre” di Stéphane Brizé sembrava tra i papabili con la sua storia di operai in lotta per difendere uno stabilimento dalla chiusura, ma è rimasto escluso. Fuori dai premi anche “The wild pear tree” del turco Nuri Bilge Ceylan (già Palma 2014 con “Il regno d’inverno”) e “Burning” del coreano Lee Chang-Dong, vincitore del premio Fipresci.
Nicola Falcinella

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