Almodovar tra passato e presente, tra “Dolor y gloria”

È in fondo un blocco creativo ed esistenziale ciò che Pedro Almodovar mette al centro di “Dolor y Gloria”. Una pellicola in corsa per la Palma d’oro, che Almodovar ha più volte sfiorato e non ha mai portato a casa. Il dolore fisico e quello spirituale vanno di pari passo, così come le possibili guarigioni. Salvador Mallo è un regista sessantenne reduce da un intervento chirurgico alla schiena. Inattivo da tempo, non ha ancora del tutto superato la morte della madre Jacinta. Nella sua quotidianità tra casa e riabilitazione, qualcosa cambia dopo l’incontro casuale con una sua attrice e con la notizia che la cineteca di Madrid ha restaurato un suo film di trent’anni prima e lo vuole riproporre al pubblico. Ricontatta Alberto, protagonista di quella pellicola dal quale si era allontanato. È l’occasione per fare pace con il sé stesso giovane, rivedere quanto realizzato con nuovi occhi e accorgersi che ciò che sembrava sbagliato forse funziona. Intanto si susseguono i ricordi di un’infanzia povera e illuminata dalla curiosità, dalla voglia di conoscere e dalla presenza materna. Salvador è dipendente dai medicinali per lenire i dolori, soffre di disturbi che richiedono accertamenti e ha accantonato ogni progetto nella convinzione di non essere fisicamente in grado di tornare sul set. Una rassegnazione che lo porta quasi a un distacco dal suo mestiere, incapace di riprendere il filo. Con Alberto instaura un rapporto su nuove basi, fatto anche di litigi, di eroina da provare e di un monologo teatrale anche questo sul passato, in ricordo degli anni ’80 della movida madrilena, quando si sentivano il mondo in mano e vivevano amori dirompenti. Tra le memorie e gli incontri si sviluppa una vicenda che sembra voler chiudere le questioni sospese, in un bilancio di vita in vista di una ripartenza. L’autore di “Donne sull’orlo di un crisi di nervi”, “Tutto su mia madre”, “Volver” e “Julieta”, filma nel suo stile riconoscibile, con meno eccessi che in passato, un’opera di passaggio, probabilmente la migliore tra le recenti. Un film sospeso tra passato e presente, tra successi e dolori, in un ripensamento generale con la giusta dose di malinconia ma senza rimpianto o nostalgia.
Almodovar non sceglie dichiaratamente un genere e restando nell’ambito di una solida struttura drammatica, con tocchi di commedia e di melodramma, dove i diversi livelli temporali sono ben bilanciati e giustificati dalla storia. Non possono mancare le citazioni cinefile, da “Niagara” e “Splendore nell’erba” alle battute su Liz e Robert Taylor. Antonio Banderas, attore feticcio di Almodovar è un alter ego particolarmente somigliante, accanto a lui ci sono Penelope Cruz e Julieta Serrano, nei panni della madre affettuosa da adulta e da anziana.
Sta forse nel restare vincolato al dramma d’autore, senza giocare abbastanza con il genere fantascientico, il limite maggiore di “Little Joe”, discreto e nulla più. Il film dell’austriaca Jessica Hausner, anche questo in concorso, è girato in inglese con interpreti anglofoni e una trama quasi da fantascienza anni ’50. Una società di biotecnologie sta testando nuove piante da appartamento da presentare in un’imminente fiera. I temi sono molto attuali, dalle manipolazioni genetiche al confrontro tra le evidenze scientifiche e le suggestioni e le credulonerie, però la regista non li porta abbastanza in profondità, vuole fare ripetere un po’ l’operazione riuscita con “Lourdes” (finora il suo film migliore). Una pellicola molto controllata, che vuole essere inquietante e gioca su un possibile effetto mutante dato ai pollini del fiore Little Joe. Le suggestioni non mancano (Alice che in casa veste come un’astronauta, le sedute dalla psicoterapista per fare il punto), ma altri spunti, come le piante progettate per ricevere affetto e donare felicità alle persone, potevano essere sfruttati meglio.
Nicola Falcinella

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