Festival di Cannes: conferme cinesi e scoperte algerine

Dopo “Fuochi d’artificio in pieno giorno”, già Orso d’oro a Berlino, si conferma ad alti livelli con “The Wild Goose Lake” il cinese Diao Yinan, in concorso al Festival di Cannes. È la storia di Zhou Zenong, capo di una banda criminale che spara a un poliziotto ed è costretto, con un’ingente taglia sulla propria testa, a nascondersi in città, forse intorno al lago delle oche selvatiche. In stazione incontra una donna misteriosa, che dice di essere inviata da sua moglie, che vuole liberarsi e il cui destino si intreccia al suo. Il regista, al quarto lungometraggio, ha uno stile già ben definito e molto raffinato. Anche in questo caso di tratta di un poliziesco su più piani temporali, anche se ambientato nel giro di pochi giorni. Non tutto della trama risulta chiaro alla prima visione, ma il risultato è molto affascinante, fa pensare a Wong Kar-Wai e alla new wave hongkonghese ma pure a Marcel Carné (il flash-back di “Alba tragica”) e Jean-Pierre Melville. Una delle migliori regie del festival e un montaggio eccellente, anche nelle belle scene d’azione.
Una rivelazione è l’algerino “Papicha” di Mounia Meddour, nella Algeri della guerra civile degli anni ‘90. La giovane studentessa Nedjma adora uscire e frequentare le feste con l’amica Wassila, nonostante si viva in un clima di attentati e atmosfera oscurantista cresca, con manifesti che invitano le donne a indossare il velo appiccicati su tutti i muri. Squadracce di donne velate di nero disseminano terrore e colpiscono chiunque non si adegui, compreso uccidere la compagna di scuola Nadia perché si è ribellata al volere di uomini prepotenti. Il sogno di Nedjma è fare la stilista e allestire una sfilata di vestiti cuciti da lei nei locali della scuola, ma tutto sembra opporsi al suo testardo desiderio, compreso le colleghe, prima entusiaste e poi dubitanti. Si tratta di un bel film, un po’ alla “Mustang”, che sa dove andare e tiene avvinti, senza cercare una particolare originalità ma con la forza di una storia e di uno sguardo. È un inno all’amicizia femminile e alla sorellanza e pure all’Algeria laica che non si arrese. Un’opera che è ancora molto attuale e importante. Molto brave tutte le interpreti, in particolare l’intensa protagonista Lyna Khoudry.
È più che promettente anche il debutto dell’americana Danielle Lessovitz, “Port Authority”, presentato in Un certain regard. Paul ha 20 anni ed è libero su cauzione. Arriva a New York da Pittsburg e non trova la sorellastra a prenderlo in stazione. In metropolitana è aggredito e derubato da sconosciuti, solo Lee lo aiuta, lo conduce a un rifugio per senza tetto e gli propone un lavoro nel traslocare gli inquilini sfrattati. Intanto nota la bella Wye, che si esibisce per strada e nei locali insieme a un gruppo di ballerini. Ne resta affascinato e instaura con lei rapporto sempre più stretto, senza sapere che si tratta di una trans. È una storia d’amore quasi impossibile, un incontro tra diversi, la scoperta di un ambiente completamente nuovo: per Paul la Grande Mela ha atmosfere black e queer. La parabola narrativa è abbastanza prevedibile, ma non importa, si resta assorbiti dal clima della vicenda che la regista esordiente sa trasmettere.
Nicola Falcinella

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