Al coreano “Parasite” la Palma d’oro del 72° Festival di Cannes

Se doveva essere il premio al film che meglio ha rappresentato lo spirito di una 72° edizione di alto livello e che ha messo d’accordo quasi tutti, la Palma d’oro aalla commedia nera “Parasite” del coreano Bong Joon-Ho è ben assegnata. Anche se forse c’erano film ancora più belli, come “A Hidden Life” di Terrence Malick (che ha avuto il premio della giuria ecumenica) o “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino, oppure autori che ancora aspettano il grande riconoscimento e hanno portato dei signori film, come Marco Bellocchio con “Il traditore” e Pedro Almodovar con “Dolor y gloria”. Quest’ultimo un riconoscimento l’ha ottenuto, per mezzo del meritato premio di miglior attore ad Antonio Banderas. È stato un palmarès per alcuni aspetti imprevedibile e per certi interessante, anche se le dimenticanze eccellenti pesano, che ha ricompensato nove titoli tra 21 in lizza. La Palma laurea un cineasta cinquantenne non molto conosciuto, ma già di culto tra i cinefili (“Memories of Murder”, “Mother”, “Snowpiercer”), con un film ha entusiasmato molti e non è etichettabile tra i cosidetti film film da festival. Per la Corea del sud è una prima volta importante e segue la vittoria giapponese dello scorso anno con “Affari di famiglia” di Kore-Eda Hirokazu.
Alejandro Gonzales Iñarritu e gli altri giurati, tra i quali Elle Fanning, hanno scelto le novità, tranne, appunto, l’interprete spagnolo e i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne che hanno portato un film, “Le jeune Ahmed”, interessante, rigoroso e attuale ma meno dirompente dei loro soliti. In compenso hanno portato a casa un premio per la regia che nella loro bacheca affiancherà le due Palme d’oro, un Gran prix e un premio per la sceneggiatura. Il Gran prix, il secondo per importanza, è stato assegnato all’esordiente Mati Diop per “Atlantique”. La senegalese è nipote del grande Djibril Diop Mambety e ha portato un film che rilegge il cinema classico africano affiancando una chiave realista e una simbolica alla luce delle questioni odierne, tra sogni e tragedie del continente. Il premio per l’attrice è stato assegnato all’inglese Emily Beecham per “Little Joe” di Jessica Haussner: il film non spiccava dentro la competizione, ma l’interpretazione è sicuramente di rilievo. Premio della giuria andato ex equo a due pellicole che meritano attenzione, il poliziesco francese “Les misérables” dell’altro debuttante Ladj Ly e il brasiliano “Bacurau” di Kleber Mendonca Filho e Juliano Dornelles. I premiati si sono distinti forse per le più belle dediche, il transalpino “a tutti i miserabili del mondo”, i sudamericani “ai lavoratori dell’arte, della cultura e della ricerca” in risposta alle politiche del presidente Bolsonaro. Menzione speciale, ma avrebbe potuto ricevere molto di più a “It Must Be Heaven” del palestinese Elia Suleiman che racconta il mondo in cui viviamo in maniera surreale, dalla questione israelo-palestinese alla società americana con la diffusione delle armi da fuoco.
Nicola Falcinella

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