Spike Lee a Cannes, commedia e blaxploitation per la prima volta da premio?

Torna in concorso al Festival di Cannes dopo quasi 30 anni, Spike Lee, regista che aveva gareggiato per la Palma d’oro solo con “Fa’ la cosa giusta” e “Jungle Fever”. Lo fa con un “BlacKkKlansman”, divertente commedia poliziesca con un forte contenuto politico che omaggia la blaxploitation.
Siamo a Colorado Springs negli anni ’70 e il giovane di colore Ron Stallworth (John David Washington, figlio di Denzel) si candida in polizia, incoraggiato da manifesti che invitano le minoranze ad arruolarsi. Superata la selezione, è assegnato all’archivio, ma si sente offeso dai termini utilizzati dai colleghi per chiedere i fascicoli dei delinquenti di colore e chiede uno spostamento. Si trova a compiere un’indagine sul Kkk come agente sotto copertura, dimostrando insieme capacità e impreparazione. Riesce a stabilire un contatto con il capo locale del gruppo razzista, ma gli rivela il suo nome vero. Cosa che consiglierà di mandare agli incontri di persona il collega Phil (Adam Driver). Gli equivoci diventano uno degli elementi di un ingranaggio ben congegnato, con al centro gli scambi di persona e di ruolo. Nel frattempo Ron conosce la bellissima attivista Black Panther Patricia (Laura Harrier, già vista in “Spider-Man: Homecoming”) e conduce quasi una rischiosa doppia vita. Parla più volte al telefono con David Duke, futuro leader suprematista, facendosi apprezzare diventando quasi capo del capitolo cittadino del Kkk (“l’organizzazione”), ma, durante una visita, diventa la sua guardia e protettore. Tra i personaggi realmente esistenti anche Stokely Charmichael, ex Black Panther che si fa chiamare Kwame Ture, che tiene un comizio a Colorado Springs. Tutto culmina durante una manifestazione di studenti neri, contro la quale i razzisti organizzano un attentato. Tra slogan contrapposti “Black Power” e “White Power”, è molto bello il momento in cui entrambi i gruppi guardano “Birth of a Nation” di David W. Griffith, rumoreggiando entrambi per situazioni opposte. Harry Belafonte appare affermando che il film fu “così potente che fece rinascere Kkk” e racconta anche del linciaggio di Jesse Washington nel 1916. Non sono gli unici riferimenti, a sottolineare l’importanza che Lee attribuisce al cinema e all’immaginario per cambiare le cose. Si discute tra chi preferisce Shaft o Super Fly e sul personaggio di Mamie in “Via col vento”. Le parole d’ordine “America First” e “Make America Greater” anticipano Donald Trump e non si può che arrivare alle immagini documentarie dei fatti di Charlottesville lo scorso anno, con lo stesso Duke. Non una sottolineatura inutile, ma un ribadire quanto la questione razziale resti centrale nella società statunitense e la forza e il radicamento che questi gruppi suprematisti e razzisti ancora posseggono. Molto bravo Washington jr, alla prima vera prova da protagonista, circondato da un cast affiatato con le facce giuste.
Spike Lee non ha mai avuto grande fortuna nei grandi festival europei, in carriera solo una menzione a Berlino per “Get on the Bus” nel 1997. Potrebbe però essere la volta buona e la presenza in giuria della regista premio Oscar Ava DuVernay per il documentario “13th” e autrice anche di “Selma” nonché della cantante del Burundi Khadja Nin potrebbe aiutarlo per un riconoscimento importante.
Nicola Falcinella

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