Jia Zhang-Ke sentimentale e il mondo che non ha orecchie secondo Godard

Il cinese Jia Zhang-Ke fa prevalere forse per la prima volta il lato sentimentale, mentre Jean-Luc Godard non si smentisce e, ancora una volta, entusiasma i fan e lascia freddi i detrattori. Il concorso del 71° Festival di Cannes prosegue con due dei lavori migliori finora, mentre arrivano belle notizie anche dalle sezioni collaterali. In “Ash is purest white”, Jia Zhang-Ke riprende la struttura del precedente “Al di là delle montagne”, di una vicenda che si sviluppa attraverso i decenni seguendo lo sviluppo del Paese. Stavolta partiamo nella cittadina mineraria di Datong, nello Shanxi, nell’aprile 2001. Passiamo per la Diga delle Tre Gole e la città di Fengjie nel 2006, poi in viaggio in treno verso lo Xinjiang e si torna in una Datong modernissima nel 2017. Qiao (l’attrice Zhao Tao di “Still Life” e “Io sono Li”) e Bin sono una coppia di affaristi poco rispettosi della legge. Il futuro delle miniere sembra segnato e la donna finisce in prigione per proteggere lui. Qualche anno dopo va a cercarlo mentre sono in corso i lavori per le dighe già visti in “Still life” (Leone d’oro a Venezia nel 2006), del quale cita anche l’ufo in uno dei momenti più d’incanto del film. Il regista racconta da par suo la caduta e l’allontanamento dei due, che nonostante tutto continuano a cercarsi. Un buon lavoro, meno direttamente critico sullo sviluppo cinese che ha travolto tutto, ma meno d’impatto rispetto ad altre sue opere.
Godard è Godard, davanti ai suoi film ci si divide tra chi capisce poco e chi si rifiuta di capire. “Le livre d’image” è un’enciclopedia e un pamphlet, un film di montaggi rapidi che inizia con “Un chien andalou” di Luis Bunuel e finisce con il ballo de “Il piacere” di Max Ophuls. In un mondo sommerso da lettere e che non ha orecchie per ascoltare, JLG torna a parlare di linguaggio (“le parole non diventeranno mai linguaggio”) partendo dalle mani e dalle dita. Torna in continuazione anche la politica, dall’omaggio alla Catalogna, in chiave soprattutto sentimentale, alla lunga parte sul mondo arabo, le sue speranze svanite di libertà e la poca conoscenza da parte dell’occidente, che continua a considerarlo poco più di uno sfondo esotico. Un’opera stratificata, ricchissima di testi e riferimenti, che andrebbe vista e rivista, un altro lascito di un regista contraddittorio, provocatorio e ineguagliabile.
Tema delicato e non nuovo, quello affrontato in “Girl” dal giovane fiammingo Lukas Dhont. Lara ha quasi 16 anni e si è appena trasferita con il padre tassista e il fratellino Milo di sei anni, cui è molto legata, a Bruxelles. Il suo obiettivo è frequentare l’accademia di danza, ma il suo talento è frenato dall’aver iniziato la preparazione in ritardo rispetto alle coetanee. Questo perché l’adolescente sta diventando donna, prende ormoni, si sottopone a frequenti visite e attende di sottoporsi a un intervento chirurgico. Le compagne, con le quali non fa mai la doccia, cominciano a sospettare e spettegolare su di lei fin quando, durante una festa, la costringono a spogliarsi e la mandano in crisi. Un buon film, coinvolgente e rispettoso, mai morboso. Dhont ha ovviamente presente “Il cigno nero” ma non copia, sta addosso al personaggio principale, attento ai piccoli gesti, nel coprirsi, bere, lavarsi, medicarsi i piedi, cercare confidenza con un corpo che cambia, anche se lentamente. Una storia sul doversi accettare nella trasformazione, sulle scelte che non hanno effetto immediato, sull’attendere e sul prendersi il proprio tempo. L’impegno nella danza è il corrispettivo del cambiamento fisico.
Assai bello è “Woman at War”, secondo film dell’attore e regista islandese Benedikt Erlingsson, noto per “Storie di cavalli e di uomini”. Halla è una cinquantenne direttrice di coro ed ecoterrorista: sabota le linee elettriche per bloccare la vendita di un’industria siderurgica ai cinesi. La donna ha una sorella gemella Asa che insegna meditazione e vuole andare in un ashram in India. Un giorno arriva una risposta, attesa da quattro anni e ormai fuori tempo: una bambina ucraina, Nika, è pronta per l’adozione. Una storia assurda, surreale e tragicomica, raccontata con ritmo, sorprese e trovate, dove a fare da collante è la voglia di migliorare il mondo, magari in maniera bizzarra. Comicità e spunti seri, come già nel film d’esordio, con tormentoni che si ripetono, come il ciclista sudamericano che ci va sempre di mezzo o i tre musicisti che suonano in tutti i luoghi più improbabili. Tra cugini presunti, cani che si chiamano Donna, tralicci che saltano in aria, riti vichinghi, droni presi al lazo e maschere di Mandela, Erlingsson conferma talento e realizza un’opera più compiuta e compatta del già valido “Storie di uomini e di cavalli”.
Nicola Falcinella

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