Puiu e Guiraudie, aperture all’altezza per il concorso di Cannes

Inaugurato da un buon “Cafè Society” di Woody Allen, sempre una garanzia e con l’aggiunta della fotografia di Vittorio Storaro, il 64° Festival di Cannes è entrato nel vivo con due film in concorso entrambi di buon livello. Sia il francese “Rester vertical” di Alain Guiraudie (“Lo sconosciuto del lago”), sia il romeno “Sieranevada – Sierra Nevada” di Cristi Puiu (“La morte del signor Lazarescu”) non si fanno notare per il glamour, ma confermano il talento e la capacità di osare – pur in ambiti diversi – dei due cineasti. Il primo è un ambizioso e spiazzante racconto di fughe e ricerche, provocazioni e riflessioni. Uno sceneggiatore, in ritardo su una consegna, cerca prima di abbordare un giovane lungo la strada e poi si trova su un pascolo della Francia centro-meridionale a far compagnia a una donna che pascola un gregge di pecore imbracciando un fucile per paura dei lupi. Il confronto tra gli animali d’allevamento e i predatori, con i danni che provocano alla pastorizia, è il preambolo a una serie di incontri e ritorni all’insegna dello scontro tra una vita dentro schemi prefissati e una più libera e autentica. Via via saltano tutti gli schemi e lo spettatore di trova più volte sorpreso e spiazzato. Ancora una volta Guiradie è cineasta ricco di idee e di libertà creativa e visiva, che cerca negli spazi aperti il luogo giusto per dargli forma.
Quasi claustrofobico, per accumulo di parole e personaggi e insistenza nelle situazioni, è invece “Sieranevada”, con il quale Puiu conferma che tre ore è il tempo delle sue storie. È un incontro di famiglia quasi in tempo reale, quasi tutto dentro un appartamento, con le sole uscite per litigi per parcheggi in strade dove il nervosismo è elevato. Due sorelle, con figli, nipoti e qualche amico, si trovano per ricordare il marito di una di loro mancato un mese prima. Il pope è in ritardo così c’è tempo per sviluppare le tensioni tra i diversi personaggi, affetti ma anche segreti mai rivelati, tra cugino fissato con i complotti (siamo pochi giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo), una zia nostalgica dell’epoca comunista, un’amica arrivata ubriaca, un marito fedifrago e i tre figli del morto. Una sorta di tragicommedia familiare, girata con lunghi piani sequenza e che conferma stilemi e temi del nuovo cinema romeno: la gabbia della famiglia, le madri asfissianti, un passato dal quale non ci si può staccare, la violenza pronta a venir fuori, una verità che non è mai quel che sembra, ciò che viene raccontato e ciò che è. Un bel lavoro, che richiede molto agli attori (e che forniscono belle prove, cominciando da Mimi Branescu, figlio maggiore del defunto che è un po’ il perno del racconto) e pure allo spettatore, conferma il valore del regista a ottimi livelli ma forse non gli fa fare il salto in avanti. Domani arrivano due come Ken Loach, con “I, Daniel Blake”, e Bruno Dumont, con “Ma Loute”.
Nicola Falcinella

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