Cannes: la commedia nera di Dumont, la rabbia tenera di Loach

Le follie di Bruno Dumont e l’impegno sociale di Ken Loach nel concorso di Cannes 69.
In “Ma Loute”, Dumont utilizza un gran cast – Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi – in ruoli imprevedibili e fuori dalle righe per mostrare il contrasto tra una ricca famiglia aristocratica e la vita di un villaggio di pescatori. Siamo negli anni ’10 del secolo scorso nella baia di Slack nel nord della Francia. Ma Loute è il maggiore di quattro figli di un raccoglitore di molluschi che arrotonda trasportando turisti nella baia. Quando arriva Billie, adolescente rampolla dei ricchi Van Peteghem che possiedono una strana villa sulla collina, scatta qualcosa. Intanto nella zona sono scomparsi nel nulla alcuni visitatori e l’improbabile e corpulento ispettore Machin indaga insieme al fido Malfoy. Una storia delirante, con tanti colpi di scena, che tocca tante corde del grottesco, passa dal nero al bizzarro, racconta di cannibalismo, investigatori che rotolano, processioni, confusioni sessuali e uomini che volano. Una commedia nera spiazzante e graffiante, che conferma la virata di Dumont su nuovi registri dopo “P’tit Quinquin” (2014). Tante invenzioni e battute, ma finita la commedia sembra non restare molto, così “Ma Loute” resta un bel lavoro e non il gran film che in molti momenti sembra poter essere.
Loach torna a temi d’attualità e direttamente sociali con “I, Daniel Blake”. Il protagonista è un cinquantanovenne di Newcastle reduce da un infarto, che si trova tra la ricerca di un nuovo lavoro e il tentativo di farsi riconoscere un trattamento assistenziale per le sue condizioni di salute. L’uomo, esponente di una classe lavoratrice e con poca confidenza con le tecnologie, si trova perso in un’odissea burocratica. Tutte le pratiche sono affidate ad aziende rigide nei loro formulari e sorde alle richieste di chi ha bisogno. Dan incontra la giovane ragazza madre Katie, appena arrivata in città con due figli piccoli. Si daranno reciprocamente una mano per affrontare un mondo sempre meno accogliente per chi ha più problemi che soldi. Loach scova sempre facce giuste, ha la giusta carica di umanità, conserva la rabbia contro le ingiustizie e la tenerezza verso chi le subisce, ma la sceneggiatura (del solito Paul Laverty) è molto schematica, più del solito, divide troppo in buoni e cattivi, semplifica la complessità di una società dove i rapporti di causa – effetto non sono così facili da individuare. Sembra una storia di più di vent’anni fa, quando Loach era ben più duro, recuperata solo ora. Tante cose sono cambiate, purtroppo non le difficoltà per chi non è così funzionale a ciò che le aziende vorrebbero. Il regista sa trarre il meglio dai ragazzini e quando fa prevalere l’umanità su tutto, come nella lettera finale che è una richiesta di dignità da parte di chi si sente semplicemente “uomo e cittadino” e non “consumatore, cliente e utente di servizi”.
La sezione Un certain regard si è aperta con due buone scoperte, l’israelo-palestinese “Personal Affairs – Omor Shakhsiya”, opera prima di Maha Haj, e l’egiziano “Estebak – Clash” di Mohamed Diab. “Clash” si svolge a Il Cairo durante una delle giornate di protesta che nel 2013 seguirono il colpo di stato di Al Sisi ed è girato tutto dentro un cellulare dell’esercito. I sostenitori dei Fratelli musulmani e del presidente deposto Morsi si scontrano con i soldati, che prima arrestano e caricano sul mezzo due giornalisti (uno dei quali americano-egiziano) poco dopo una ventina di manifestanti che avevano assalito il mezzo. Film molto violento, claustrofobico, dove dominano la paura dell’esercito, la repressione e la diffidenza reciproca tra gli arrestati, rappresentanti di un’umanità molto composita. Tutti vogliono sopravvivere e fuggire, tutti sentono di avere ragione e nell’arco del film si rivelano per ciò che sono. La città è come un vulcano, non si sa cosa potrà accadere. Il regista riesce a tenere in pugno la situazione e rendere l’idea di un Paese travagliato.
“Personal Affairs” è invece una commedia con tocchi surreali sul rapporto tra uomini e donne, proprio come quella che Tarek, che vive a Ramallah, sta scrivendo. I suoi genitori sono un’anziana coppia di Nazareth: il padre sta sempre al computer, beve caffè in continuazione e non riesce a dormire la notte; la moglie lavora a maglia e guarda la tv. Tra loro hanno pochi rapporti, per lo più litigano. Al massimo parlano dei figli: Tarek che passa a trovarli, la figlia incinta e il terzo figlio che vive in Svezia e li invita. Intanto lo scrittore frequenta la bella Maissa, ma non si decide e la considera un po’ troppo precisa per i suoi gusti. Non mancano i controlli ai checkpoint che contribuiscono al tono surreale. La Haj mostra un buon tocco nel gestire una comicità di situazioni e di battute, un controllo anche degli aspetti drammatici e la capacità di valorizzare al meglio il cast. Una piccola sorpresa.
Nicola Falcinella

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