Corea anni ’30, durante la colonizzazione giapponese. Sookee, una giovane coreana, è reclutata per lavorare come domestica dell’ereditiera nipponica Hideko. Costei vive nella casa del potente zio Kouzuki, costruita simbolicamente in due metà, una in stile orientale e una in stile inglese. La giovane inizia il lavoro custodendo un segreto: nella realtà è stata assoldata da un finto conte, un coreano che si spaccia per giapponese, con lo scopo di sedurla, derubarla e rinchiuderla in un manicomio. Le cose andranno diversamente, perché tra le due donne (rispettivamente interpretate da Kim Tae-Ri e Kim Min-Hee) scatta una vera passione. “Mademoiselle” il nuovo film del coreano Park Chan-Wook, in concorso al Festival di Cannes, è un leccato e un po’ sfiancante racconto in costume in tre parti, nelle quali le vicende si completano e si scoprono nuovi dettagli. Un meccanismo un po’ alla “Rashomon”, anche se qui non ci sono punti di vista diversi. Girata fin troppo bene, la pellicola è un esercizio di stile non troppo appassionante, se non per una mezz’ora centrale di gran melò lesbico, dall’avvicinamento, il desiderio fino a scene d’amore saffiche, nate come educazione sentimentale, davvero molto belle. C’è un ruolo anche per un’altra star del cinema coreano, Moon So-Ri, che interpreta la zia suicida della protagonista che serve da monito. Nell’ultima parte compare anche qualche inutile crudeltà, al cui richiamo, evidentemente, il regista non sa rinunciare. Una delle cose migliori è la colonna sonora di Cho Young-Wuk, che aveva già composto quella di “Old Boy”.
Su un contrastato rapporto padre – figlia è basato “Toni Erdmann” della tedesca Maren Ade (già premiata alla Berlinale con “Alle anderen” nel 2009), anche questo in gara per la Palma d’oro. Un film ben accolto dai festivalieri ma che non nasconde le sue pecche, da una lunghezza spropositata (due ore e 40 minuti) e immotivata, all’essere costruito su poche situazioni che alla lunga mostrano la corda, a un’insistita ripetizione. Le gag fanno ridere solo fino a un certo punto e sarebbe più interessante il personaggio del padre di quello della figlia che è invece protagonista. Ines lavora per una grande società a Bucarest e conduce una vita fin troppo regolare, quando è raggiunta dal bizzarro padre Winfried. Il genitore le chiede se è felice spiazzandola costringendola a fare cose che non aveva mai fatto in un crescendo di assurdità, mentre il padre assume il nome Erdmann per spacciarsi come esperto consulente aziendale.
Nella Quinzaine des realisateurs si fa molto apprezzare “L’economie du couple” del belga Joaquim Lafosse, ritratto di coppia in un interno. Una storia tutta dentro l’appartamento che Marie e Boris devono spartirsi dopo la decisione, più di lei che di lui e varie volte rimessa in discussione, di separarsi dopo 15 anni e due gemelle di otto anni. Marie è una donna borghese abituata a darsi da fare, il marito di estrazione popolare ma più capace di indebitarsi che di trovarsi un lavoro. La fine di un sentimento, l’amore per le bambine, le differenze sociali. È un film di dettagli e piccole cose, diretto con mano felice da Lafosse, che fa fare il tifo per l’unità della coppia in questione. Molto bella la scena di una delle tante discussioni, quando l’uomo rientra in casa all’improvviso, ha un confronto serrato con la moglie e solo in un secondo momento si scopre che erano presenti anche le bambine. Una pellicola sulla scelta e la responsabilità, sulle cose mai scontate, sui sentimenti quotidiani, che mostra la normalità di tante situazioni senza banalizzare nulla. Marthe Keller è madre di lei che appoggia lui.
Nicola Falcinella
Cannes 69: “L’economie du couple” meglio dei due film in concorso

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