Sorpresa francese, Palma d’oro a Audiard. Delusione italiana

La Francia prende una Palma inattesa e l’Italia che aveva molte aspettative resta inspiegabilmente a bocca asciutta. Il cinema di casa, considerato sotto tono per tutta la durata del festival, ha sorpreso i pronostici ottenendo tre premi. Palma d’oro, che compensa quella sfuggitagli nel 2009 per “Il profeta”, a Jacques Audiard per “Dheepan”. La sorpresa per la completa assenza di italiani, nonché del cinese “Montains May Depart” di Jia Zhang-ke e del giapponese “Our Little Sister” di Hirokazu Kore-Eda, meriterebbe considerazioni a parte. Tre film italiani che avrebbero potuto puntare al premio maggiore, del tutto ignorati dai fratelli Coen e dagli altri giurati.

Il vincitore è un bel film, senza dubbio il migliore dei francesi in gara, meritava un riconoscimento, certo quello principale lo premia oltre il suo valore. La storia di un guerrigliero tamil che lascia lo Sri Lanka e la guerra civile con documenti falsi e una famiglia formata per l’occasione: con una donna e una ragazzina prende l’identità di una coppia con figlia uccisi nel conflitto. Giunti in Francia, i tre si trovano a ripartire in un quartiere popolare dove il traffico di droga detta legge. Un racconto denso e sensibile, per niente banale di profughi, in un contesto di vita molto difficile. Soprattutto c’è l’interessante relazione che si sviluppa tra loro, una ragazza che non è figlia ma si comporta da tale quando comincia ad andare a scuola, una coppia finta che forse lo diventerà e una escalation che può essere interpretata in modi diversi. A volte è difficile sfuggire al proprio passato anche andando lontano migliaia di chilometri, ma altre volte la determinazione aiuta a continuare a reagirvi. Non un grande film, ma scritto molto bene, diretto con la forza giusta e utile a far vedere le cose in modo diverso.

Una cosa simile a quel che fa la lieta sorpresa del concorso, il debuttante ungherese Laszlo Nemes, che ha ottenuto il Gran Prix con “Saul fia – Il figlio di Saul”. Auschwitz come non era mai stato raccontata sullo schermo, pedinando un detenuto dei Sonderkommando, costretto ad aiutare i nazisti a bruciare i cadaveri. Un lavoro registicamente prodigioso, tesissimo, con un sonoro così esasperato da condurre lo spettatore all’inferno con i reclusi. Molta autorialità, fin dall’inizio con un lungo pianosequenza fuori fuoco, ma le immagini sopperiscono il racconto e creano una drammaturgia di grande impatto. Di Nemes, figlio d’arte, già aiuto di Bela Tarr e autore di corti molto interessanti (“With a Little Patience” del 2007 ha lo stesso stile di questo e un inizio identico), sentiremo parlare.

Vincent Lindon è stato meritatamente incoronato migliore attore per l’interpretazione di un disoccupato cinquantenne che trova un nuovo lavoro in “La loi du marché” di Stéphane Brizé. Un premio per un film “politico”, dedicato agli altri interpreti, tutti lavoratori veri. Incomprensibile e scandaloso l’ex equo come migliore attrice tra l’anonima transalpina Emmanuelle Bercot per “Mon roi” di Maïwenn e l’intensa Rooney Mara di “Carol” di Todd Haynes. La prima gode evidentemente di buoni sostegni in patria: non a caso ha anche inaugurato il festival con il modesto “La tete en haute”, una sorta di “Mommy” in minore. La Mara regge alla grande il confronto con la personalità di Cate Blanchett nel melodramma lesbico di Haynes che solo ai superficiali può apparire calligrafico.

Il premio per la regia è importante ma non abbastanza per il grande taiwanese Hou Hsiao-Hsien. “The Assassin” è il film visivamente più straordinario del concorso, uno dei pochi capolavori visti a Cannes 68. Il maestro del cinema asiatico, già Leone d’oro a Venezia per “La città dolente” nel 1990, ha portato un wuxia riletto in maniera personale che resterà: per l’Italia l’ha già acquistato Movies Inspired. “Chronic” del messicano Michel Franco è stato premiato per la sceneggiatura con un film anche interessante ma non del tutto risolto. Del tutto insensato il premio della giuria a “The Lobster” del greco Yorgos Lanthimos, regista che anziché film crea trappole di facili metafore nelle quali i giurati cascano troppo spesso. Già premiato in Un certain regard per “Doogtooth” e poi a Venezia per la sceneggiatura di “Alpis”. Stavolta Lanthimos si cimentava in una produzione internazionale, girata in Irlanda con Colin Farrell e John C. Reilly. Alla Colombia è andata la Camèra d’or per il migliore esordio: “La tierra y la sombra” di Cesar Augusto Acevedo, essenziale, doloroso, forse un po’ punitivo per lo spettatore, come lo è, tra polvere e fumo, quella di chi vive ai margini di una piantagione di canna da zucchero.

Nicola Falcinella

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