Dopo l’inaugurazione con un film mediocre, “La tête haute” della francese Emmanuelle Bercot, è entrato nel vivo il 68° Festival di Cannes. Il segno del Giappone con due film, il fracasso allegro dell’atteso “Mad Max: Fury Road” e una perla italiana. Matteo Garrone, dopo i due Gran premi della giuria per “Gomorra” e “Reality”, è uno dei più seri candidati alla Palma d’oro con “Il racconto dei racconti”. Un film profondamente in linea con la sua poetica e tutto il suo lavoro precedente e insieme di novità, anche per la produzione italiana. Un film spettacolare d’autore, di fantasia, addirittura una fiaba, ma profondamente radicato nella realtà e nell’oggi. Un’opera che può dividere, ma affascinante come è raro vederne. Tre storie intrecciate come “Gomorra”, di ambientazione liberamente barocca e un’impronta femminile molto chiara. Ci sono re, regine, mostri, incantesimi, orchi, principesse e incantesimi come in tutte le fiabe che si rispettino: Garrone e i suoi cosceneggiatori ne hanno scelte tre tra le 50 del seicentesco “Lo cunto de li cunti” dello scrittore napoletano Giambattista Basile. L’ossessione – per la maternità, per il sesso, per il potere, per la bellezza – ha un ruolo di rilievo in un film a tinte horror, che non perde mai la misura, che cerca e trova la meraviglia (in mostri marini e pulci giganti fatti artigianalmente o nei funamboli) ma non cede mai allo spettacolo fine a sé stesso. E la principessa Violet sarà una regina diversa da quella di Selvaoscura, che apre il film accigliata perché desidera un figlio ed è disposta a perdere l’amorevole marito per averlo. Un film dove si mescolano miti antichi e moderni (c’è pure King Kong), zeppo di pittura, che lascia un seme di ottimismo: se gli incantesimi durano poco, i cattivi sono puniti e si può imparare dagli errori.
Sempre in gara può constatare la nascita di un autore di cui sentiremo parlare con “Saul fia – Il figlio di Saul” dell’ungherese Laszlo Nemes. Si tratta dell’unico debuttante incluso nel concorso, ma anche di uno che è stato già aiuto del grande Bela Tarr. Siamo ad Auschwitz nell’ottobre 1944, l’ebreo ungherese Saul (Geza Röhrig) fa parte dei Sonderkommando, prigionieri tenuti separati dagli altri e costretti ad aiutare i nazisti. L’uomo lavora nel crematorio e gli sembra di riconoscere il figlio sul bancone dove preparano un ragazzo per l’autopsia e decide di salvarlo dal rogo cui sono destinati i cadaveri e trovare un rabbino per un rito funebre. Nemes pedina senza sosta l’ottimo protagonista, ha uno stile maturo, potente, fatto di lunghi piansequenza, di riprese energiche, con un finale sorprendente, ma forse si compiace troppo delle proprie capacità, soprattutto nella parte centrale. Qualche carenza narrativa sopperita dalla forza della messa in scena. La resa di un inferno dove non si capisce cosa succeda e tutti sono la possible prossima vittima è efficace. Un cineasta che è già più di una promessa e del quale si può aspettare fiduciosi il prossimo film.
Notevole l’inaugurazione di Un certain regard, affidata a una cineasta ben nota, già premiata sulla Croisette per “The Mourning Forest” e molto apprezzata un anno fa per “Still The Water”, la giapponese Naomi Kawase, connazionale di Hirozaku Kore-Eda in concorso con la storia familiare “Our Sister”. “AN” prende il titolo dalla crema di fagioli impiegata per preparare i dorayaki, un dolce tradizionale nipponico simile alla crépe farcita. Sentaro è un uomo di mezz’età provato dalla vita e costretto dai debiti a gestire un chiosco, sebbene non ami i dolci e preferisca l’alcol. Un giorno compare un’anziana segnata dalla lebbra sofferta in gioventù, con una ricetta eccezionale per cucinare i fagioli. Kawase racconta in modo delicato un riscatto inatteso per entrambi i personaggi, un’apertura al diverso ma anche lo scontro con il mondo esterno: quando si scoprono i segni sulle mani della donna non tutti reagiranno allo stesso modo. Il tutto davanti ai fiori di ciliegio.
Fuori concorso, accolto molto calorosamente, “Mad Max: Fury Road” di George Miller, quarto titolo della fortunata serie che rese celebre Mel Gibson nel 1979. Dopo quasi trent’anni, e con un protagonista diverso (il Tom Hardy di “Locke”), vede il poliziotto Max, inseguito dai fantasmi del passato, in un’avventura desertica che non si fa mancare nulla. Viaggia nel deserto cercando solo di sovravvivere e si imbatte in un gruppo di donne capeggiate dall’imperatrice Furiosa (Charlize Theron), un po’ profughe e un po’ amazzoni, e la bella rivale gli contende anche la scena. Una pellicola avrà successo e diventerà un altro cult: tanta adrenalina, risate, trovate (dalle chitarre sputafuoco agli inseguitori che sembrano miliziani dell’Isis), tante citazioni (dai western classici a “Rango”) e ritmo indiavolato tra inseguimenti e tempeste di sabbia e duelli.
“La tête haute” è un dramma adolescenziale, la storia del sedicenne Malony (Rod Paradot, esordio convincente e ha una bella faccia) e il suo rapporto lungo diecianni con la protettiva giudice minorile (Catherine Deneuve). Un ragazzino mezzo delinquente messo in comunità, pronto a cadere nell’errore nonostante quasi tutti siano ben disposti verso di lui. Un rapporto complicato con la madre e il fratello più piccolo. Quasi un “Mommy” in brutto, una storia venata di patetico, maternalismo, nazionalismo (la bandiera francese sul finale come se fosse il successo di un metodo), di già visto, con una regia incerta e un utilizzo delle musiche discutibile. Molto bravi gli attori, compresi la madre Sara Forestier e l’assistente sociale Benoit Magimel.
Bercot, già a Berlino qualche anno fa con “Elle s’en va” sempre con la Deneuve, fa un passo indietro in un percorso non esaltante. La scelta di metterla in apertura è un segno che però rischia di non portare a nulla e del quale si poteva fare a meno. Più volte criticato per il poco spazio alle registe, quest’anno Cannes ha in concorso due francesi Maiwenn (già premiata al debutto con “Polisse”) che presenta “Mon roi” e Valérie Donzelli (“La guerra è dichiarata”) con “Marguerite et Julien” e consegna la Palma d’onore ad Agnès Varda, abbastanza per il vessillo francese e per l’orgoglio delle donne.
Nicola Falcinella