Il più recente film di Kitano Takeshi come inaugurazione. È il segno di un cambio di passo del Fcaal – Festival del cinema del cinema africano, d’Asia e America Latina, la cui 26° edizione è in programma a Milano dal 4 al 10 aprile. Una settimana intensa di proiezioni per un programma più contenuto rispetto al passato come numero di titoli, ma molto stimolante. La scelta per la prima serata, oltre che dare prestigio alla storica manifestazione, sottolinea come il festival stia sempre più allargando i suoi orizzonti. Inaugura stasera “Ryuzo And The Seven Henchmen” (“Ryuzo e i sette compari”), una commedia con yakuza diretta da Kitano che si ritaglia un piccolo ruolo da poliziotto. Un cinema umanista, con lo spirito di Akira Kurosawa che aleggia e traspare fin dal titolo, che fa uscire il lato più malinconico e nostalgico del regista. Si ride tanto e la violenza è per una volta limitata a pochi momenti. È la storia di un gruppo di pensionati ex yakuza: il loro mondo non esiste più e trascorrono le giornate come settantenni qualsiasi, chiacchierando e rimpiangendo i tempi andati. Un giorno Ryuzo, che ama anche ubriacarsi con gli amici, rischia di essere raggirato da giovani criminali e decide con gli ex compagni di costituire una “famiglia”. Tra equivoci vari, si troverà a coinvolgere anche suo figlio, che sembra lavori in un’azienda onesta. In toni da commedia, il regista paragona la spietatezza del capitalismo a quella delle bande criminali e non risparmia nessuno, neppure chi protesta in difesa degli sfruttati.
Oltre che apertura il film di Kitano appartiene alle Proiezioni speciali “Flash” insieme ad altri grandi del cinema orientale, inspiegabilmente snobbati da festival più titolati: “Monk Comes Down The Mountains” di Chen Kaige (le arti marziali rilette da uno dei grandi del cinema cinese), “Stop” di Kim Ki-Duk (ancora dilemmi morali, stavolta per una giovane coppia sfollata da Fukushima dopo l’incidente nucleare e alle prese con una gravidanza rischiosa) e “Chaotic Love Poems” dell’indonesiano Garin Nugroho (un Romeo e Giulietta in mezzo ai cambiamenti sociali tra gli anni ’70 e i ’90), oltre a “Scarecrow” del filippino Zig Dulay. Qui la protagonista è la giovane vedova Belyn che deve affrontare un sospetto su di lei e il figlio: la donna è interpretata dall’attrice italo-filippina Alessandra De Rossi, vista anche nell’ultimo film di Lav Diaz, che sarà al festival anche in qualità di giurata.
Nel concorso lungometraggi ci sono 10 titoli, da segnare: “Appena apro gli occhi” della figlia d’arte tunisina Leyla Bouzid (che sarà nelle sale dal 28 aprile), la buona commedia amara messicana “La delgada linea amarilla” di Celso Garcia e il bel “Madame Courage” dell’algerino Merzak Allouache. Ancora l’afgano “Mina Walking” di Yosef Baraki, il colombiano “Siembra” di Angela Osorio e Santiago Lozano a confermare il bel momento del cinema della Colombia, il kazako “Bopem” di Zhanna Issabayeva.
Nel concorso Extr’a “Devil Comes To Koko” dell’italo-nigeriano Alfie Nze, “Dustur” di Marco Santarelli, “Su campi avversi” di Andrea Fenoglio e Matteo Tortone, “Loro di Napoli” di Pierfrancesco Li Donni e, soprattutto, “My Names Is Adil” di Adil Azzab, Andrea Pellizzer e Magda Rezene. Quest’ultimo è la storia autobiografica, raccontata tra documentario e fiction, di un giovane marocchino trasferito a Milano, che racconta il dolore del distacco e della traversata, rivisti nel momento del ritorno a casa. Un film abbastanza singolare nel panorama italiano e il cui valore va al di là del cinema e riguarda i cambiamenti della nostra società. Uno sguardo dall’interno sul tema delle migrazioni, con momenti toccanti, ma lontano dalla retorica e dalle frasi fatte.
Si presenta molto interessante anche la Sezione tematica “Designing Future”, con due film sudafricani, “Black President” di Mpumelelo Mcata e “Opening Stellenbosch: From Assimilation To Occupation” di Arian Kaganoff.
Molto bello, già passato al Festival di Berlino nella sezione Forum, è “The revolution won’t be televized” di Rama Thiaw, un film mauritano su rapper senegalesi che sfidano e vincono il presidente autoritario Wade, tra il 2012 e il 2014. “Y’en a marre” è il loro slogan per rimare contro i regimi, perché vanno anche in Burkina Faso a cantare contro Blaise Compaoré. Musiche bellissime, grande cuore, impegno politico disinteressato, Africa e giovani e libertà e idealismo e tanto Thomas Sankara. La musica fa da collante tra chi vuole giustizia e democrazia. Alle immagini di concerti, discussioni e viaggi dei protagonisti, si alterna la madre di Thiat, uno dei musicisti leader, che scrive un’affettuosa lettera al figlio. Degli stessi paesi e dello stesso periodo tratta pure “Une révolution africaine (Les dix jours qui ont fait chuter Blaise Compaoré)” di Gidéon Vink e Boubacar Sangaré.
Completa il programma il concorso Cortometraggi africani con 12 film. Tutte le informazioni in www.festivalcinemaafricano.org.
Nicola Falcinella