“Visage, Villages”: Agnès Varda porta a Cannes un nuovo atto d’amore per l’arte e la libertà

Agnès Varda mancava dal 1991 dal programma ufficiale del Festival di Cannes. La grande regista francese portò allora “Garage Demi”, affettuoso tributo al marito Jacques, morto da poco. Varda non ha mai avuto un grande feeling con la Croisette. Il suo primo film, “La Pointe Courte” fu proiettato privatamente per pochi nel 1955 solo perché André Bazin si prese a cuore quell’esempio di cinema “libero e puro”, come lo definì. È stata in concorso solo nel 1962 con “Cleo dalle 5 alle 7”, mentre Demi vinse la Palma due anni dopo con “Les parapluies de Cherbourg”. In anni recenti, è stata giurata nel 2005, ha ricevuto Palma d’oro alla carriera nel 2015, oltre alla Carrozza d’oro della Quinzane nel 2010, ma l’autobiografico “Les plages d’Agnès” è stato presentato alla Mostra di Venezia nel 2008.
Così è quasi un evento il ritorno, a 89 anni da compiere il 30 maggio, fuori concorso con “Visages, villages” realizzato insieme a JR, fotografo noto anche per le immagini incollate sulle pareti degli edifici. Ne esce un viaggio scanzonato e picaresco su e giù per la Francia celebrando il potere dell’immaginazione e l’incontro con le persone. Un nuovo atto d’amore al cinema, all’arte, alla vita e alla Francia nascosta da parte di un’eterna ragazza sbarazzina. I viaggiatori seguono un itinerario senza un filo predefinito o uno scopo, dettato dal caso, “è sempre stato il mio migliore collaboratore” sottolinea Agnès Varda, e il film è esattamente un percorso non programmato dove alla fine le cose tornano. A bordo di un furgone con le sembianze di un apparecchio fotografico da quale escono anche le stampe, i due percorrono le strade, pronti a fermarsi con persone comuni. Le loro storie marginali interessano solo a chi ha curiosità e pazienza e sono accomunate da una sorta resistenza all’omologazione e alla dimenticanza. Per la prima volta in carriera Varda lavora in coppia con un’altra persona e con JR percorre piccoli paesi, villaggi, appunto, dove trova ex minatori e figlie di minatori che non vogliono lasciare la vecchia casa, bariste di provincia che diventano celebrità grazie a una foto e all’effetto diffusivo dei social, allevatori di capre che bruciano le corna ai capretti per non farli lottare oppure che han deciso di tornare a praticare la tradizionale mungitura a mano. L’artista li fotografa e affigge i ritratti sulle pareti, in segno di omaggio ma anche per far rivivere i luoghi o interpretarli in un modo nuovo. Varda ama le capre e naturalmente le spiagge, così torna in Normandia dove nel 1954 aveva fotografato un cadavere di animale, un uomo e un bambino (su quell’immagine aveva costruito il corto “Ulysse” del 1982), in un luogo caro anche a JR. Su un grande masso staccatosi dalla falesia, e trasformato in bunker, incollano un ritratto che Agnès fece all’amico fotografo Guy Bourdin. Varda ama da sempre la fotografia, con la quale iniziò una carriera quasi settantennale al Festival di Avignone, così aggiunge una sosta sulla tomba di Henri Cartier-Bresson in Provenza, immersa nella lavanda. La regista passa continuamente dal presente al passato, guidata dai ricordi che non si lasciano mai sopraffare dalla nostalgia. Procede per associazioni all’insegna della leggerezza, sul modello che aveva inaugurato con “Les glaneurs et la glaneuse” (2000) e citato proprio da JR all’inizio di “Visages, villages”, mentre i due autori e protagonisti scherzano su come si sono incontrati e quanto si stimano a vicenda. Osservazione, autobiografia, realtà, finzione e ironia, procedendo per accostamenti anche azzardati, sono gli elementi caratterizzanti della produzione recente della regista. Anche questo è un film di arte e vita, che sa toccare corde tristi senza perdere il sorriso. Chi conosce l’opera della regista ritrova la sua voce eternamente sbarazzina e si lascia condurre in una revisitazione del mondo, per chi la conosce poco o nulla un’introduzione a uno spazio creativo libero che partorisce idee, guidato da amore per la natura, la vita, la bellezza e il gesto anche fine a sé stesso. “Un chien andalou” di Luis Bunuel le serve per scherzare sulla sua malattia agli occhi e le canzoni popolari che intona a prepararsi all’incontro con le mogli dei portuali di Le Havre. La presenza di Jean-Luc Godard incombe sul film, come continuo rimando e come destinazione: “ha cambiato il cinema”, afferma Varda, aggiungendo “il cinema ha bisogno di persone come lui”. Il primo rimando è l’abitudine di JR di non separarsi mai dagli occhiali scuri, esattamente come JLG giovane: Varda si inventò il corto “Les fiancés du pont MacDonald”, dove il regista era protagonista con Anna Karina, inserito in “Cleo dalle 5 alle 7” (1961), solo per riuscire a farglieli togliere. Godard torna più tardi nella corsa dentro al museo del Louvre a rifare una celebre scena di “Band à part”. Nel finale i due intraprendono un viaggio in treno a Rolle, sul lago di Ginevra, dove vive Godard, che “la nonna della Nouvelle vague” non incontra da anni. Avvicinandosi all’appuntamento, Varda tradisce inquietudine e davanti alla casa dell’amico e collega Jean-Luc, che non smentisce neanche stavolta la propria fama, trova una sorpresa.
Nicola Falcinella

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