Berlinale 69. “What she said: the Art of Pauline Kael” di Rob Garver

 

Non c’è un nome più grande nella critica cinematografica statunitense di Pauline Kael, che pubblicò le sua prima recensione di “Le luci della città” di Chaplin sul “The New Yorker” nel 1967, continuando a collaborare con il prestigioso settimanale fino al 1991. Kael fu grande sostenitrice del “New Hollywood”, un movimento di grande rinnovamento del cinema statunitense del quale lei ammirava in particolare i film di Martin Scorsese. Definí “Bonnie & Clyde” un film “epocale”, dopo che la critica di allora lo aveva stroncato come futile ed irrilevante. Kael aveva trovato un nuovo stile ed un linguaggio più diretto di scrittura sui film, diventando, nella critica cinematografica, l’equivalente di quel tipo di cambiamento che il cinema americano stava percorrendo, lontano dai film polverosi dei padri verso strisce selvagge cresciute dalla sottocultura degli anni ’60.

Il documentario diretto da Rob Garver si svolge ad un ritmo costante e piacevole, alternando estratti da interviste con Kael a frammenti di film. Questi ultimi includono opere cinematografiche da lei elogiate e per lequali ha contribuito a creare un grande pubblico (“Bonnie and Clyde”, “Mean Streets”, “Carrie”, “Nashville”, “Il Padrino”, “Elephant Man”) e quelle da lei stroncate, facendo arrabbiare il mainstream americano dell’epoca (“The Sound of Music “,”West Side Story”), offendendo a volte la sensibilità di alcuni tra gli spettatori più acculturati (“Blow-Up”, “2001: A Space Odyssey”).   Sarah Jessica Parker legge parte della prosa di Kael e ne replica bene i ritmi idiosincratici della voce. Nel film, molti critici e critiche contemporanee attestano l’enorme impatto ed influenza di Kael. I registi – tra cui Paul Schrader, Francis Ford Coppola e Quentin Tarantino – parlano di come lei abbia influenzato la loro attitudine nei confronti dell’arte cinematografica, portandoli a comprenderne a fondo le possibilità espressive. Gina James, figlia di Pauline Kael, fa trasparire con grande evidenza (e forse non inaspettatamente) che non era facile esserne figlia.

Garver, scrittore e regista di cortometraggi di New York, ama il suo soggetto ma sa anche quando tenere le distanze. La sua gestione delle più famose controversie sulla carriera di Kael è concisa e imparziale. Un esempio di ciò è il famoso saggio di Kael in cui lei si oppone all’interpretazione del critico Andrew Sarris sul film d’autore, in particolare laddove il ruolo e la personalità del regista vengono considerati criteri di grandezza. Kael invece sosteneva che un film dovesse essere considerato uno sforzo collaborativo. In un famoso essay su “Citizen Kane”, scritto nel 1971, sottolinea come il film abbia fatto ampio uso dei talenti distintivi del co-autore Herman J. Mankiewicz e del direttore della fotografia Gregg Toland, togliendo a Wells il riconoscimento di unico autore del film. Kael ribadisce inoltre la sua posizione contraria all’ideale di obiettività del critico, incorporando aspetti autobiografici e soggettivi nei suoi saggi e nelle sue recensioni, descrivendo le sue reazioni emotive alla visione ed affermandole come valido criterio di giudizio.

Il film parla anche del famoso testo di Renata Adler nella “New York Review of Books” del 1976, in cui analizza la raccolta di recensioni di Kael pubblicate nel libro “When the Lights Go Down”. Nel suo articolo dal titolo “The Perils of Pauline” (dove “peril” può essere tradotto sia come “pericolo” che come “insidia”) Adler definisce drasticamente il lavoro di Kael “senza valore”. Peggio ancora, Adler vede l’opera di Kael come “sintomatica di qualcosa che non funziona nella vita americana”, sostenendo inoltre che il lavoro di critica prodotto dagli anni ’60 in poi non contenesse “nulla di evidentemente intelligente o sensibile” ed accusandone le “stranezze e i manierismi”. Sebbene Kael abbia sempre rifiutato di rispondere alla critica, la recensione di Adler è diventata nota come “l’attacco più clamoroso alla reputazione di Kael”. Attacco rimasto, in ultima ratio, senza alcun effetto. Garver mostra Kael in una vecchia intervista televisiva in cui dice: “Solo i cattivi critici impongono una formula accademica. Non è necessario razionalizzare i propri istinti. I propri istinti sono la somma totale della propria mente e delle proprie risposte.” Era precisamente l’antipatia di Kael verso la teoria del cinema e verso dogmi di ogni tipo che esasperò numerosi critici newyorkesi dell’epoca, molti dei quali negli anni 80 lavoravano al “Village Voice”.  La controversia attorno alla recensione negativa di Pauline Kael del film “Shoah” di Claude Lanzmann, che durava nove ore, (“Ho trovato ‘Shoah’ lento ed estenuante fin dall’inizio. Dopo poco più di un’ora mi stavo contorcendo inquieta non riuscendo a mantenere l’attenzione sulle immagini.”) causò grande indignazione. Il critico di “Village Voice” J. Hoberman scrisse “Non ha visto il valore di ‘Shoah’ perché il film non ha mostrato la violenza come mezzo stilistico dal quale lei è così chiaramente dipendente.” Il film di Rob Garver chiama un’altra testimone: la sociologa e saggista statunitense Camille Paglia, che fornisce alcuni dei momenti più vivaci del film, parlando di quanto le piacesse leggere Kael “anche quando attaccava i film che amavo”. Ciò che la colpiva particolarmente, dice, era “l’uso enfatico del linguaggio colloquiale americano.” E continua dicendo: “Io disprezzo la retorica snob dei teorici del film che scimmiottano le locuzioni gergali, rovinando la critica cinematografica accademica da oltre trent’anni. La scrittura di Kael, modellata sull’idioma colloquiale americano, è ancora completamente fresca e dinamica. È punto di riferimento eccellente per i giovani scrittori e le giovani scrittrici.” Il film racconta anche che Kael aveva problemi economici e che aveva fallito in un tentativo di sceneggiatura con Warren Beatty. Inoltre scopriamo che soffriva del morbo di Parkinson, malattia che la costrinse ad abbandonare la sua attività di pubblicista. Il film, tuttavia, non ci rivela veramente chi sia la donna dietro l’icona, ma ci lascia con una grande curiosità di esplorare e (ri)leggere le sue recensioni, percependo l’entusiasmo, la gioia, la passione, la delusione, la noia e la sorpresa con cui le compose.

Su “La notte di San Lorenzo” dei fratelli Taviani, Kael scrisse “È così bello da essere elettrizzante. Racchiude una visione del mondo intero. Commedia, tragedia, vaudeville, melodramma: sono tutti qui, inscindibili.” Un po’ come l’opera di Pauline Kael.

Caterina Lazzarini

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