Fescaaal verso la chiusura, all’insegna delle storie di bambini

Ultime ore per vedere i film del 30° Fescaaal, lo storico Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano che si sta svolgendo su MyMovies.it e sui canali social del festival. Una manifestazione preziosa, tanto più in questo periodo in cui le grandi piattaforme sembrano monopolizzare l’attenzione e lasciano poco spazio a chi lavora in territori meno frequentati o meno vendibili. Come sempre le direttrici Alessandra Speciale e Annamaria Gallone hanno proposto un programma articolato, ricco e interessante, anche se limitato nei numeri. 10 i film del concorso internazionale Finestre sul mondo, con una spiccata prevalenza di storie che raccontano di bambini e ragazzi.

Da vedere il toccante “Veins of the World” di Byambasuren Davaa che arriva dalla Mongolia. La regista già nota nota per “La storia del cammello che piange” e “Il cane giallo della Mongolia” conferma il proprio talento nel rendere universali vicende ambientate nella sua terra senza perderne le specificità e senza accondiscendere a un facile esotismo. Amra è un ragazzino proveniente da una famiglia di pastori nomadi che sogna di partecipare a Mongolia’s Got Talent. Intanto l’avanzare di una società mineraria straniera che estrae oro devasta i pascoli, devia il corso del fiume e minaccia la comunità. Il padre Erdene vuole resistere il più possibile e vuole garanzie dai nuovi venuti, la madre Zaya è rassegnata ad andarsene per non perdere tutto. Quando il marito muore in un incidente, la moglie diventa combattiva e non si vuole arrendere, mentre Amra vuole in qualche modo prendere il posto del padre. Davaa scaglia la poesia e la tenacia innocente contro l’avidità degli uomini, mentre i bellissimi paesaggi mongoli sono distrutti dall’avanzare delle miniere che stravolgono tutto. Il titolo deriva dalla canzone tradizionale che Amra canta.

È un film tenero all’altezza dei due piccoli protagonisti il messicano “Los lobos” di Samuel Kishi Leopo. Max e Leo arrivano ad Albuquerque, negli Stati Uniti, con la madre Lucia. Sono immigrati come tanti altri, si accontentano del posto meno caro dove stare, mentre Lucia cerca un lavoro. La madre dà istruzioni (registrandole su un vecchio registratore, lo stesso che usano per ascoltare il brano alla chitarra del nonno) ai bambini su come comportarsi quando non è in casa. I bambini cercano di rispettare le regole, con qualche difficoltà, ma si arrabbiano quando la madre torna più tardi di quel che ha detto. E guardano dalla finestra gli altri ragazzi che giocano fuori. Intanto il sogno di andare a Disneyland, lontana e costosa, non si avvicina mai. Il regista usa il punto di vista dei bambini per approcciarsi a un Paese nuovo e difficile, di opportunità e illusioni, racconta l’immigrazione in maniera non convenzionale, quasi tutto da dentro una stanza di residence.

C’è invece la separazione dei genitori nel coreano “Scattered Night” di Lee Jihyoung e Kim Sol, ancora vista dai figli, Sumin di nove anni e il maggiore Jinho. Il padre, che sembra il meno deciso oppure vuole solo evitare troppi contraccolpi, va a vivere in un’altra casa, mentre cercano di vendere l’appartamento in cui stavano insieme. Ma dove andranno a stare i figli? E chi lo deciderà? La piccola Sumin spera forse che i genitori non si separino, ma non aspetta e assume una posizione sua, non vuole che decidano solo gli adulti, vuole partecipare anche lei, anche se forse non sa così bene cosa voglia. Un film che mostra in maniera semplice e delicata come la separazione non riguardi solo gli adulti. Colpisce come i due fratelli parlino parecchio tra loro della separazione e delle conseguenze che avrà sulle loro vite. Molto matura la bambina e forte e diretta l’interprete.

Unico documentario in lizza il kenyano “Softie” di Sam Soko, che segue, nell’arco di una decina d’anni, ma in particolare durante una lunga campagna elettorale, l’attivista Boniface Mwangi. Fotografo affermato, è segnato dalle violenze post-elettorali del 2007 di cui è stato testimone e dal poco sdegno le le sue immagini sconvolgenti provocano nel mondo politico. Decide così di impegnarsi direttamente, con il sostegno della moglie Njeri, per perseguire l’obiettivo di democrazia e giustizia nel suo paese, rovinato dalla corruzione, dalla violenza e dalla divisione tribale. Un uomo nato povero, chiamato “softie” (tenero) da bambino, divenuto deciso, idealista e concreto. Un uomo che mette il suo Paese al primo posto (ed è per questo rimproverato dalla moglie), che, alla vigilia delle elezioni politiche del 2017 decide di candidarsi con una propria lista, fuori dallo scontro tra i due partiti principali che fanno riferimento alle dinastie Kenyatta e Obinga. Si cala in una lunga campagna elettorale, facendo propaganda per strada, incontrando la gente e rifiutando i metodi degli avversari (come il ricco cantante soprannominato Jaguar) che distribuiscono soldi e regali agli elettori. La presenza di Mwangi sulla scena pubblica lo porta a ricevere minacce di morte, per sé e la famiglia, tanto che la moglie e i tre figli si rifugiano da amici negli Usa. Ci sono la solitudine della sua posizione, i dilemmi che deve affrontare, ma anche la fiducia che non viene meno. Un film sul credere nel cambiamento della società e nel migliorare le cose, ma anche sbattere contro la realtà di corruzione, violenza, polizia che reprime le manifestazioni.

È ispirato a una storia tradizionale del Rajastan l’indiano The Shepherdess and the Seven Songs” di Pushpendra Singh. La storia quasi fuori dal tempo, ambientata in una comunità di allevatori musulmani tra i monti del Kashmir e sullo sfondo del conflitto ancora in atto, della giovane nomade Laila che all’inizio sposa Tanvir che ha superato la prova d’iniziazione. I diversi episodi, a tratti drammatici e a tratti divertenti, sono intervallati da sette canzoni del popolo Bakarwal legati a momenti della vita o stati d’animo.

Fuori concorso l’ottimo “Talking about Trees” di Suhaib Gasmelbari, già premiato alla Berlinale 2019 quale miglior documentario. Il film fa parte, con il documentario sulle calciatrici Khartoum Offside” di Marwa Zein e You will die at 20” di Amjad Abu Alala premiato a Venezia con il Leone del futuro, del terzetto di opere emerse nel 2019 che hanno portato l’attenzione quasi all’improvviso sul cinema sudanese. In “Talking about Trees” quattro registi ormai anziani si ritrovano dopo esilio intorno al Sfg, il Sudan Film Group, per riprendere il sogni di un cinema in Sudan,che aveva vissuto una buona stagione tra i ’60 e gli ’80, anche ottenendo premi all’estero, ma era stato fermato di colpo dal colpo di stato di Omar Al-Bashir l’1 luglio 1989. Così Ibrahim, Suliman, Eltayeb e Mana, con l’aiuto della segretaria Hana, decidono di riaprire un vecchio cinema abbandonato, concentrando l’attenzione sul vecchio Cinema Rivoluzione, ma i problemi da superare non sono pochi, nonostante la buona volontà, per avere i permessi necessari, perché la settima arte è ancora vista con sospetto. Nonostante una società che sembra pensare ad altro (e guarda i film in televisione, soprattutto quelli indiani e d’azione) e ai tanti bastoni tra le ruote, il gruppo non si arrende: i quattro cercano soluzioni pratiche, vanno per le strade, parlano con le persone, cercano di far rinascere una passione. Intanto imitano “Viale del tramonto”, mostrano in proiezioni private “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e “Heremakono – Aspettando la felicità” (2002) del grande cineasta mauritano Abderrhamane Sissako (noto anche per “La vie sur terre”, “Bamako” e “Timbuktu”). Un documentario bello ed efficace, che mostra l’effetto delle dittature sulle società attraverso il cinema, proprio azzerato in tutte le sue forme da Al-Bashir. “Talking about Trees” trasmette passione, voglia di non arrendersi, anche una certa malinconia per il passato.

Nicola Falcinella

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