“En guerre” di Stéphane Brizé, un film dalla parte degli operai che può puntare alla Palma d’oro

Robert Guédiguian è uno dei massimi cantori della classe operaia nel cinema francese e avrà, nella sua posizione di giurato del 71° Festival di Cannes, molto probabilmente un occhio di riguardo verso “En guerre” di Stéphane Brizé. Il più accreditato tra i transalpini in gara si conferma tra i papabili per la Palma d’oro con un film molto di cuore.
Lo stabilimento Perrin, che produce componenti per l’industria automobilistica in una cittadina della Francia, è diventato di proprietà dell’azienda tedesca Dimke. Due anni dopo la firma di un accordo che aveva visto i 1.100 dipendenti accettare sacrifici pur di mantenere il posto di lavoro e la produzione, arriva la notizia che la fabbrica sta per essere chiusa e delocalizzata in Romania. Gli operai entrano in sciopero in attesa della decisione del tribunale, che confermerà la chiusura. Intanto una delegazione incontra rappresentanti del governo e cerca un confronto con la proprietà, che si nega a più riprese. Tra i sindacalisti emerge la figura carismatica di Eric Laurent (Vincent Lindon), con il simbolo della Cgt ben in mostra. La sua ostinazione nel lottare per la causa gli attirerà critiche anche da parte dei compagni e provocherà un incidente che farà cambiare le cose.
Si tratta dell’ottavo film del regista, che si è fatto notare davvero solo con “Quelques heures de printemps”, in concorso a Locarno Festival nel 2012, e poi con “La legge del mercato” e “Una vita” (a marzo è stato omaggiato con una personale completa al Bergamo Film Meeting) e ne attesta la crescita. Brizé filma davvero come se fosse una guerra, facendo ampio uso di immagini di telegiornale a rendere più calda la cronaca del braccio di ferro. È un alternarsi di assemblee, picchetti, proteste, incontri spesso inconcludenti, azioni della polizia che blocca e spinge indietro i manifestanti. La macchina da presa sta quasi sempre in mezzo, vicina, ma in alcune scene (in particolare i pestaggi e le cariche delle forze dell’ordine) il regista lascia solo l’azione con la musica a palla. Anche se alcuni operai appartengono alla Cgt, il sindacato fuori dalla fabbrica non c’è, come del resto già in “Due giorni, una notte” dei fratelli Dardenne: gli operai sono soli, ricevono solidarietà solo dall’altro stabilimento francese dell’azienda. I lavoratori vogliono stare uniti, credono di aver già sacrificato abbastanza per l’azienda, eppure si dividono, qualcuno si accontenterebbe di una liquidazione ed è pronto a sospendere la protesta e tornare a lavorare. Il ruolo del ministero e del governo sembra marginale ed è una delle cose più interessanti del film: contano le decisioni aziendali, non la politica, e il capo tedesco non sembra disposto a trattare. Le parti quasi non riescono a dialogare, mancano gli strumenti per un confronto vero, i tavoli sembrano un dialogo tra sordi, nei quali nessuno ascolta le ragioni altrui. Brizé non riesce a evitare la trappola di dare la colpa a un’azienda tedesca, straniera, e quindi allontanare il peso di decisioni così impattanti sulla vita di tante persone. La questione non è che lo stabilimento non produce reddito, è che non dà profitto abbastanza per gli azionisti.
Uno dei pregi della pellicola è dare risalto al gruppo di lavoratori, al collettivo, lasciando poco spazio alle vicende personali dei personaggi, se non Eric Laurent che sta per diventare nonno. Peccato che per concludere vada però ad appoggiarsi sulla vicenda personale. Il risultato è un film solido, incalzante, dalla parte di operai, che sbattono contro un muro di gomma, senza essere manicheo.
Nicola Falcinella

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