Manca solo “Macbeth” di Justin Kurzel con Marion Cotillard e Michael Fassbender al completamento, domani, del concorso. Si avvia alla conclusione una 68° edizione del Festival di Cannes non all’altezza degli anni passati, divisa in due blocchi tra film di alto se non altissimo profilo e altri del tutto inutili. A sparigliare le carte solo “Youth” di Paolo Sorrentino che non ammette vie di mezzo.
In testa al gruppo è arrivato il mirabile “The Assassin” di Hou Hsiao-Hsien. Il cineasta taiwanese, Leone d’oro a Venezia per “La città dolente” non faceva film da “Il palloncino rosso” del 2007. Una pellicola fuori dai toni soliti del regista, visivamente strabiliante, con la fotografia di Mark Lee Ping Bing che non ha paragoni nel concorso, nemmeno in quelle di Peter Suschitzky per “Il racconto dei racconti” o di Ed Lachman per “Carol” di Todd Haynes. Una reinvenzione del wuxia, il cappa e spada cinese, che blocca l’azione: i voli sono limitatissimi, i duelli sono secchi e rapidi, davvero tagli chirurgici, in opposizione a tutto il cinema di oggi, non solo cinese. Un prologo in un bianco e nero, nella Cina del IX secolo, partendo da due asini per spostarsi su due donne che parlano. Una è la giovane Yinniang (la star Shu Qi, già in “Millennium Mambo” e “Three Times”), allieva che viene rimandata nella provincia di Weibo per uccidere il cugino Tian. Seguono intrighi, meditazioni, diplomazia, misteri con una messa in scena sontuosa e un uso precisissimo di colori sgargianti, una tavolozza infinita dalla quale regista e dop attingono con una maestria rara. C’è una lunghissima scena di giochi di tende con Yinniang nascosta mentre parlano di lei. Un film sulla sconfitta e sull’accettazione dei propri limiti e un finale che sembra provenire dal cinema di John Ford. Le musiche, anche queste perfette, sono di Lim Giong, altro fedele di Hou Hsiao-Hsien.
Le note dolenti della gara sono proseguite con “Valley of Love” di Guillaume Nicloux che, reduce dal disastroso “La religieuse”, cerca di nascondere dietro Isabelle Huppert (che già aveva una piccola parte in “Louder than Bombs” di Joaquim Trier) e Gérard Depardieu una pellicola inconsistente. Due attori si ritrovano nella Death Valley molti anni dopo la loro relazione, “chiamati” per lettera dal loro figlio che si è suicidato. Si spostano tra i luoghi più panoramici nell’attesa di rincontrare il morto. Il film invece non parte mai e finisce nel modo più prevedibile.
Avrebbe qualche freccia nel suo arco “Chronic” del messicano Michel Franco (“Después de Lucia”), storia di un uomo (Tim Roth) che ha perso moglie e figlio per malattia e lavora come infermiere a domicilio assistendo pazienti in fin di vita. Un’opera in apparenza fredda, che ha un qualcosa di morboso, che spiega il meno possibile e tocca un’infinità di questioni delicate, dal legame assistito – infermiere all’eutanasia. Vorrebbe essere toccante e disturbante ma siamo più dalle parti del vorrei ma non posso e l’epilogo lo conferma.
Un certain regard si è confermata una sezione di lusso anche con “Compara – Il tesoro” di Corneliu Porumboiu. Il cineasta di “A est di Bucarest” e “Poliziotto, aggettivo” è una delle punte del cinema del suo Paese, che da quando è esploso una decina d’anni fa con la nuova generazione non ha mai smesso di produrre opere di valore e rivelare nuovi talenti. Costi è un impiegato quarantenne con un figlio al quale legge la favola di Robin Hood. Il vicino Adrian che gli chiede un prestito che non gli può accordare lo conduce in un’avventura imprevista: recuperare un metal detector e andare in campagna alla ricerca di un tesoro che il nonno del vicino avrebbe sotterrato per nasconderlo ai comunisti. Una commedia che nella parte centrale dello scavo ricorda “Susanna” di Howard Hawks con un finale pazzo, quasi rivoluzionario e nello spirito del ladro inglese. Porumboiu gira con una semplicità apparente, dirigendo bene gli attori, inanellando una serie di battute taglienti, criticando un po’ tutti, ieri e oggi.
Nicola Falcinella